“Pieta” di Kim Ki-Duk

14 Set

“Che cosa sono i soldi?

“L’inizio e la fine di ogni cosa: amore, odio, rabbia, gelosia, vendetta…la morte.”

Kim Ki-Duk dimentica amore, poesia e la delicatezza che tanto lo caratterizzava negli ultimi anni, rifiondando alle radici del suo cinema, quello grezzo, sporco e disperato. E riesce a firmare quello che è, sicuramente, il suo film più cupo di sempre. Persino peggio de “L’Isola”. Perché, sebbene qui non ci sia gente che si infili gli ami in bocca o in altre parti del corpo, c’è qualcosa che nasce dagli inferi, un incubo che scivola sullo schermo. Qualcosa di affascinante e pericoloso.

Il nuovo Kim Ki-Duk è, almeno per me, un grande Kim Ki-Duk, che sebbene non smetta mai di autocitarsi (ma quale autore non lo fa mai?), che riconferma un talento visionario straordinario, quasi alieno, sicuramente metafisico. E da una depressione, ne nasce il suo film più CUPO, DISPERATO, STRANIANTE e, sopratttutto, VIOLENTO.Film che elimina o semplifica il simbolismo (che prima era alla base dell’intera sua opera): è un film che morde, dilania e, alla fine, commuove, lasciandoti in un bagno di lacrime (e sangue). Un film che si apre su una carcassa abbandonata sul pavimento di un bagno, che affonda nella disperazione per portarti alla luce. è la visione pessimistica di un mondo dove anche i rapporti sono stati corrotti dai soldi, dove l’unico sentimento che rimane è la vendetta. Meraviglioso. Dovrei elaborare ancora il blocco mentale per parlarne di più.

MOMENTO ALTAMENTE DISTURBANTE: “Ah, quindi io sono uscito da qui, vero? E allora ci posso rientrare!”

69esima Mostra Del Cinema Di Venezia

12 Set

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Ha vinto il maestro coreano Kim Ki-Duk l’ambitissimo leone d’oro per il suo nuovo film “Pieta“, storia di redenzione che ha come protagonisti un usuraio che risana i debiti tramite amputazioni e altre pratiche poco ortodosse e una donna che si spaccia per (o forse è) sua madre, soffiando il premio al discusso “The Master” di Paul Thomas Anderson, regista (tra gli altri) del celebre “Magnolia“.

Kim Ki-Duk non è nuovo al Festival Di Venezia. Anzi, è stato proprio qui, che ha iniziato a farsi conoscere, dodici anni fa, con lo splendido e controverso “L’Isola“, bollato come film-scandalo della Venezia 2000 e scatenando un discusso svenimento. Ed è stato sempre a Venezia, nel 2004, che ha fatto sospirare il pubblico con il capolavoro “Ferro 3- La Casa Vuota“, che gli è valso il Premio Della Giuria. 

Il regista coreano ha accolto la sua gloria con estremo coinvolgimento, cantando “Arirang”, una canzone tradizionale coreana, con il premio ben saldo in mano. Una vittoria per un uomo appena uscito da una profondissima depressione, che l’ha portato a prendere una breve pausa dal cinema e a realizzare un film personalissimo e bistrattato (ma non per questo deludente), sotto il titolo di “Arirang“.

Ed ecco, ora, una panoramica sulle altre premiazioni:
Spetta al già citato “The Master” il Leone D’Argento, aggiudicando anche, ex-aequo, il premio per la migliore interpretazione maschile ai due attori principali: Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix. è Israeliana la migliore attrice del lido: Hadas Yaron, per il criticatissimo film sentimentale “Fill The Void“.

Spetta, invece, al film-scandalo di quest’anno il premio speciale della giuria: il controverso e destabilizzante “Paradise: Faith” dell’austriaco Ulrich Seidl. Secondo tassello di una trilogia sul paradiso, è la storia morbosa della relazione tra una donna devota a Dio e il suo crocifisso.

Nonostante si vociferasse una rinascita per il cinema italiano contemporaneo (a quanto pare confermata dalle ottime critiche per il film “Acciaio“, tratto da un famoso best-seller), sono stati solo due, quest’anno, i premi tutti nostrani: a vincerli il giovane Fabrizio Falco, vincitore del Premio Mastroianni Per Il Migliore Attore Emergente, presente in due film: “è stato il figlio” e “Bella Addormentata” e Daniele Ciprì, vincitore del miglior contributo tecnico per “è stato il figlio”. 

Il francese Olivier Assayas vince il premio per la miglior sceneggiatura, per l’amato film “Aprés Mai“, che ha anche diretto. 

é Turco il vincitore per la migliore opera prima: Ali Aydin con “Mold“.
La sezione Orizzonti, per il cinema sperimentale e indipendente, trova un suo vincitore nel noto regista indipendente cinese Wang Bing, con il suo nuovo “Three Sisters“, uno spaccato sulle zone più rurali e povere della Cina, dove tre sorelline lottano per la sopravvivenza.  Menzione speciale a “Tango Libre“, diretto da Frédéric Fonteyne

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Paradise: Faith

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Fill The Void

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Acciaio

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Pieta

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Three Sisters

 

 

Revolution Is My Boyfriend: Due Chiacchere Con Bruce LaBruce

11 Set

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Ho dovuto intervistare Bruce LaBruce, pioniere del post-porno, soprattutto a tematica omosessuale, per un progetto universitario. Ho deciso di condividerla con voi.

Sono le 18.45 e Bruce LaBruce è in ritardo per la nostra videointervista via Skype, della serie: più svuncio di così non si può, ma ci si accontenta. Si palesa da solo, come un’apparizione, confortandomi: “I’m ready!” dice. Si presenta con le occhiaie, abbastanza tramortito e con un enorme tazza di caffé. Mi dice: “Scusami, mi sono svegliato tardi.”Perdonato. Skype che tenta di dividerci più volte, negando il suo microfono e bloccandosi ripetutamente. Tuttavia, la mia pazienza e il suo entusiasmo hanno contribuito a terminare l’intervista nel miglior modo possibile.

Io: Come prima domanda, volevo semplicemente chiederle di dirci che cosa fa di preciso, quali sono i suoi temi ricorrenti e come lavora ai suoi progetti.

Bruce: Sono un regista di film underground/alternativi/d’avanguardia. I miei progetti variano, dipende soprattutto dal budgt. Alcuni non ne hanno proprio, altri, invece, sono low-budget. Recentemente mi è stato finanziato un film con un budget che sfiora il milione di dollari, ad esempio. Ci ho messo tre anni per realizzarlo: tra lo scrivere la sceneggiatura e trovare un produttore. A volte, quindi, i tempi di lavorazione sono abbastanza lunghi. Se il tempo di lavorazione è troppo lungo, spesso opto per il low-budget. “L.A. Zombie” , ad esempio, è stato un progetto molto libero: l’ho realizzato con meno di 100.000 dollari di budget e senza nessuna sceneggiatura: giusto un soggetto di tre pagine.

Io: E ora sta lavorando a qualche nuovo progetto?

Bruce: Sì, il mio prossimo film si chiamerà “Gerontophilia” . La storia ruota attorno a questo giovane che prova attrazione sessuale per gli uomini anziani. Lo girerò tra Settembre e Ottobre, quindi, sarà pronto per il prossimo anno.Io:

Soprattutto nei suoi ultimi lavori è presente il binomio sesso e violenza, spesso di deriva zombie. Come mai?

Bruce: Bella domanda! Credo sia dovuto dal fatto che sono stato cresciuto in campagna, in una fattoria. Quindi, da piccolo, ho assistito regolarmente all’uccisione di maiali nell’ammazzatoio. Credo che sia questa l’influenza. Riguardo al sesso, invece, non so proprio come mai ci sia finito dentro! Ahahahahahah! Diciamo che cerco di spiegare come anche la violenza più aberrante possa essere un ottimo mezzo d’intrattenimento. Spesso esagero, vado oltre, ma il low-budget mi permette grande libertà e io la sfrutto.

Io: Crede che, nonostante lei sia considerato un artista a tutti gli effetti, c’è ancora chi ritiene i suoi film mera pornografia?Bruce: Alcuni sì, lo credono ancora. Ma si sa, certa gente non sa vedere oltre l’immaginario pornografico, quindi li catalogano come porno. Certo, i miei film sono molto pornografici, ma sono anche dei meta-porno: riflettono sui meccanismi del genere, come la cultura consuma e vede i porno e riflettono anche il mio modo ambivalente di approcciarmici.

Io: E qual è il suo punto di vista sull’industria del porno mainstream, del post-porno o della pornografia su internet?

Bruce: In passato ho anche lavorato con compagnie cinematografiche professionali, quindi sono entrato in contatto anche con l’ “industria del porno” più convenzionale, che è completamente un mondo diverso, rispetto alla creazione di porno artistico, quello indipendente e più alternativo. Se dovessi fare un porno classico, lo farei per distruggere le convenzioni dello stile di quel tipo di pornografia, cercando di fare qualcosa di più interessante. Se, invece, si tratta di pornografia artistica, allora c’è più liberta d’espressione: puoi spingerti oltre i limiti dell’estetica e non devi nemmeno preoccuparti di renderlo commerciale. Puoi usare, quindi, tipi diversi di bellezza: diversi corpi, diversi ideali. è tutto più stimolante.

Io: Si sente un’icona gay?

Bruce: Credo di sì. Più che altro, mi sento più come un’anti icona gay, o un gay anti-icone.

Io: So che lei ha un’ampia schiera di fans anche tra il pubblico maschile eterosessuale e il pubblico femminile. Crede che, pur concentrandosi sull’omosessualità maschile, i suoi lavori siano indirizzati anche ad un pubblico più vasto?

Bruce: Sì, questo è un obiettivo che mi tocca nel profondo: Credo che l’idea di “cultura gay” e di “ghetto omosessuale” siano un limite alla creatività di una persona. Da artista, preferisco definitvamente parlare di argomenti più universali e vicini a tutti. Penso che chiunque lavori nel campo cinematografico voglia farlo, attraverso il suo modo personale di vedere il cinema.

Io: Preferisce dare più peso all’esplicita violenza o carnalità dell’immagine, oppure al tema portante di un suo film? A cosa dà più peso?

Bruce: Beh, dipende. Come ho già detto, “L.A. Zombie” è stato, per me, un film totalmente lbero: nessuna sceneggiatura, nessun limite, nessuno che mi dicesse “Guarda, stai esagerando”…ma forse di quel qualcuno ne avrei avuto bisogno! Ahhahahahah!Il nuovo film, invece, avendo un budget maggiore, ha più rischi: devo renderlo un filino più commerciale del mio standard, in modo da poter guadagnare abbastanza per progetti più liberi. Infatti, sarà un film dove il sesso non sarà per niente esplicito.

Io: Punterà, quindi, sull’aspetto più emotivo?

Bruce: Diciamo di sì. Sicuramente sarà più narrativo: i personaggi saranno molto più approfonditi e avrà una storia dalla struttura molto complessa. Da quel punto di vista, ecco, è un film molto convenzionale. Anche “Otto, Or Up With Dead People” aveva una trama, ma non aveva il timore di osare ed essere esplicito. Questo perché è stato una produzione indipendente, con un budget di circa 350.000 dollari. Ero, quindi, molto libero. Ma è difficilissimo trovare un pubblico per film di questo genere. Il sesso esplicito e -forse anche la politica radicale degli stessi personaggi- ne hanno reso un film difficilmente “vendibile”.

Io: “Otto” e “LA Zombie” sono in qualche modo collegati..

.Bruce: “Sì, “Otto” e “LA Zombie” hanno lo stesso tema, a sono molto diversi tra loro: esprimono due estremi del mio lavoro.

Io: Qual è il film a cui si sente più legato, scegliendone uno dalla sua filmografia?

Bruce: Ecco, sono molto legato a “Super 81/2” , perché è stato il più difficile e il più confuso da girare. Era il mio secondo film, mi ci sono voluti due anni per realizzarlo e ho dovuto sfruttare solo il mio denaro. Finirlo mi ha quasi ucciso. Quindi, simbolicamente, è una metafora filmica della difficoltà di essere un regista.

Io: Quindi lo ricorda più per la vita che ha avuto, che per il suo contenuto?

Bruce: Decisamente. Tecnicamente è stato un disastro. Mi piace ancora molto il suo contenuto, ma lo sento più vicino per la difficoltà che c’era nell’errore e il caos.

Io: E di che parlava?

Bruce: Difficile spiegarlo: è un meta-film. Molti dei miei film sono film dentro film. “Otto” è una sorta di remake di “Super 81/2” , quindi è molto introverso. Parla della mia identità e della mia crisi sul mio essere un regista pornografico, parla di come sia difficile fare arte con il sesso, su quanto sia complicato realizzare scene di sesso esplicito…

Io: Crede che, da allora, lei sia riuscito a conquistare una fama più artistica?

Bruce: Dopo il mio primo film, “No Skin Off My Ass”, dove rappresentavo per la prima volta amplessi espliciti sullo schermo, sono stato definito da molti “pornografico”. Ho realizzato quanto sia ipocrita la gente riguardo alla pornografia: quasi tutti ne fanno uso e lo adorano, ma sono sempre pronti a giudicare la gente che ci lavora o ci recita. Questo binomio è alla base di tutti i miei lavori. Molti mi giudicano come il pioniere del post-porno e, in qualche modo, credo di averlo inventato io stesso. è stato, quindi, anche questo a farmi guadagnare il rispetto di molte persone, che apprezzano i miei lavori anche per il loro contenuto. Anche se questo nasconde anche lati negativi: ora sento molta pressione. Tutti si aspettano da me chissà quali invenzioni, chissà quali territori nuovi da esplorare…

Io: Ho letto sul suo profilo di facebook che sta lavorando ad un progetto teatrale chiamato “Mommy Complex”, può spiegarci di che si tratta? 

Bruce: Veramente, si tratta di un progetto che rientra in un progetto ancora più grande: “The Bad Breast” : un melodramma femminile basato sul lavoro post-freudiano della teorica sulla psicanalisi Melanie Klein. Faccio anche molto teatro, soprattutto a Berlino. Lavoro molto con Susanne Saschsse, l’attrice che è anche apparsa in “The Raspberry Reich” “Otto”. 

Io: Anche le sue rappresentazioni teatrali toccano temi di caratteri sessuali?

Bruce: Sì, ma in un modo molto più teorico. D’altronde, è difficile rappresentare il porno a teatro! Si tratta di lavori basati sulla teoria di Melanie Klein, riguardo alla relazione tra il bambino e il seno della madre, come questo influenza lo sviluppo del bambino. Si tratta di una teoria femminista, perché distrugge totalmente l’idea fallocentrica delle teorie di Freud.

Io: Si sta, quindi, concentrando anche sul mondo femminile?

Bruce: Sì, e soprattutto nei miei lavori teatrali, anche se, l’ultimo mio progetto, una produzione di Arnold Schoenberg, chiamata “Pierrot Lunaire”, un’opera d’avanguardia ha come protagoniste delle donne che decidono di cambiare sesso.

Io: E ha mai pensato di realizzare dei film a tematica lesbo?
Bruce: Ne ho già fatto uno! Si chiama “Give Peace Ass A Chance” ed è un cortometraggio. Questo corto rientra in una mia personale trilogia sulla sessualità femminile: “Give Peace Ass A Chance”, “The Bad Breast” Weekend In Alphaville”. Quest’ultimo l’ho realizzato l’anno scorso, come parte di un progetto artistico che ho fatto a Regina, Saskatchewan, in Canada.

Io: Di che tipo di progetto si tratta?

Bruce: Era un omaggio a Godard: un film realizzato come parte di una videoinstallazione. Il soggetto riguardava una donna che, con la sua auto, si scontra contro una renna. In seguito all’incidente, la protagonista invoca degli spiriti aborigeni. Era tutto così astratto. L’ho realizzato con gli artisti della First Nation e con un mio amico ballerino. Sai, ho anche lavorato come istruttore di danza da giovane! Ho scritto io stesso le coreografie per i miei lavori teatrali e anche per “Otto”. Mi piace molto la danza come mezzo d’espressione.

Io: Lei è molto eclettico. Ho letto che è anche fotografo…Bruce: Sì, in Italia è stato pubblicato anche un mio libro di scatti fotografici. Fotografia artistica e pornografica.

Io: E che ne pensa della pornografia su internet? Bruce: Diciamo che io mi pongo a metà tra l’industria del porno più convenzionale e quella più libera. Tuttavia, pur considerando poco interessante molta della pornografia su internet, ne ammiro molto il lato democratico. Mi piace questo spirito del “porno fai-da-te”: potrebbe persino cambiare totalmente il modo di realizzare film. Eppure, penso che se il porno sia tanto ricco di sfaccettature sia proprio per la presenza di questi due estremi all’apparenza inconciliabili: il porno mainstream e quello artistico. Devono coesistere.

Io: Il suo lavoro mi ricorda molto la corrente soft-porno giapponese dei pinku-eiga, una corrente dove i registi giapponesi sfruttavano il porno per raccontare temi molto importanti quali l’incomunicabilità o la politica, o per realizzare lavori d’alto valore artistico. Li conosce? E se sì, li apprezza?

Bruce: Sì, e mi piacciono molto. Mi hanno anche influenzato per una sceneggiatura che vorrei realizzare. Si chiama “School Girl In A Cage”.

Io: Ahahhah! Un titolo decisamente da pinku-eiga anni ’70! 

Bruce: “Sì, decisamente! Ahhahha! Comunque un film giapponese che mi ha molto colpito, ma di cui non ricordo né titolo né regista, parlava di questa ragazzina minorenne che si offre di fare sesso pur di diventare una star televisiva. Terminava tragicamente con il suo suicidio.”

Io: Non credo di averlo mai visto, anche se ne ho visti tanti! Ahhahahh! Conosce Hisayasu Sato? Credo che abbia realizzato uno dei migliori film a tematica gay,“Muscle”. Credo che, insieme al suo “Otto”, sia il film che meglio rappresenta l’omosessualità maschile…

Bruce: “Grazie, ne sono onorato! Il film credo di non conoscerlo, ma sicuramente me lo procurerò.”

Io: Questa era l’ultima domanda, la ringrazio ancora per la sua disponibilità, è stato gentilissimo…Bruce: “YAY!”

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FILMOGRAFIA:

1987- Boy, Girl
1987- I Know What It’s Like To Be Dead
1988- Home Movies
1992- A Case For The Closet
1992- The Post- Queer Tour
1992- Slam!
1993- No Skin Off My Ass
1994- Super 81/2
1996- Hustler White
1999- Skin Gang
2000- Come As You Are
2004- Raspberry Reich (Revolution Is My Boyfriend)
2007- Give Piece Of Ass A Chance
2008- Otto; Or Up With Dead People
2010- L.A. Zombie
2010- The Bad Breast or The Strange Case Of Thelda Lange
2010- Weekend In Alphaville
2011- Fucking Different XXX

“Irreversible” di Gaspar Noé

16 Apr

“Il tempo Distrugge Ogni Cosa”, questa la chiave del controverso secondo lungometraggio di Gaspar Noé (dopo “Seul Contre Tous” del 1998 e “Enter The Void” del 2009, di cui ho già parlato qui), un film accolto in modo indegno da una critica con la puzza sotto il naso e dal pubblico che si crogiola nelle acide considerazione dei critici pronti a masturbarsi su qualsiasi cosa che duri quattro ore e mezzo e raggiunga l’emblema dell’immobilismo.
Indegno, perchè è troppo facile parlar male di un film che, invece, andrebbe rivalutato dal principio. Perchè sono ben pochi i film che, nella cinematografia occidentale contemporanea, sanno essere così “oltre”, così devastanti, purificanti e carnali come “Irreversible“, un film capace di scuoterti e non abbandonarti più, per giorni interi.
Indegno è criticare un film perchè fa comodo, senza averlo capito (le recensioni negative che si trovano in giro, infatti, non si esplicano quasi mai, puntando con faciloneria a elementi indispensabili per la creazione del film stesso), solo perchè nel cast figura la nostrana femme fatale Monica Bellucci, tra l’altro in una performance invidiabile, sicuramente la migliore della sua carriera.
Quando la donna ideale degli uomini eterosessuali italiani, infatti, si spoglia dei personaggi che le vengono cuciti addosso solo per il suo aspetto fisico (la burina, la romana sboccata, il puttanone), riesce persino a recitare in modo eccellente. Accade qui, in un film che finalmente riesce a darle grosse libertà espressive, sconvolgendola. Apice, e motivo di fischi, è la scena in cui la protagonista femminile incontra il proprio infausto destino in un sottopassaggio parigino dalle pareti infuocate di rosso morte.

12 minuti di camera fissa, rasoterra, di una Bellucci come non la si è mai vista prima: rantola sotto le luci al neon intermittendi, si inarca, urla: è incredibilmente pacata, vulnerabile, struggente. Pronta ad abbandonare la sua sensualità, si dipinge di fango.
12 minuti di stupro, tra i più agghiaccianti della storia del cinema, se non il più. Noè non ha paura di farcelo vedere, destando il disgusto, discussioni di buon senso e altre cose che sarebbero la gola dei conservatori.
Perchè filmare quest’indecenza? Perchè Noè vuole inchiodare lo spettatore, e lo fa con incredibile facilità: il suo cinismo risiede nel prendere una delle donne considerata tra le più belle al mondo e di spogliarla per distruggere chi vede. Non c’è nulla di eccitante in questo squarcio di inferno, che è parodia stessa della vita: un uomo che scende in un sottopassaggio, resta a guardare per due secondi e poi se ne va.

Allo spettatore non è concesso: deve guardare tutto, da vicino, e non può intervenire. Lo deve subire perchè ha voluto, per mero voyeurismo, deridere, partecipando alla sofferenza di un uomo (Vincent Cassel) a cui hanno stuprato e ucciso la fidanzata. Perchè l’essere umano gode nel vedere la sofferenza altrui e cerca di non convincersene, ma è così.

“Il Tempo Distrugge Tutto”, dicevamo. E qui arriva l’idea dalla narrazione al contrario. Criticatissima perchè pare copiata da un filmaccio come “Memento” (2000) di Cristopher Nolan, come se neanche fosse il primo ad adottare questa scelta “innovativa” (dove lo lasciamo “Peppermint Candy” di Lee Chang-Dong, uscito nel 1998?).
Se nel film di Nolan il ritorno al passato è solo un pretesto per ricostruire un’identità di ricordi e per vezzo stilistico e in “Peppermint Candy” è una scelta per descrivere cosa può spingere un uomo al suicidio, in “Irreversible” la narrazione inversa è la base dello stesso film: Il tempo distrugge tutto.

Un film di vendetta non può che partire al contrario, perchè la vendetta stessa cerca di rimediare, inutilmente, a qualcosa che è successo nel passato. Tenta di strappare dalla morte i propri cari e i propri affetti, pur essendo consci di quanto sia inutile. Ed è beffardo il tentativo di sottolineare la vanità della vendetta per Noé: l’uomo che viene ucciso dal migliore amico di Cassel non è lo stupratore (e non è uno spoiler, perchè lo si scopre quasi subito).

Un film di osservazione pura, “Irreversible”, che è sublime nella sua capacità di sfruttare la narrazione inversa (pericolosissima, invero, per un vengeance-movie, visto che l’azione normalmente si concentrerebbe nel finale, mentre all’inverso, è concentrata nella prima mezz’ora, con l’aggravante di sapere già tutto), per inchiodare alla poltrona: con una semplicità solo apparente, infatti, Noè nasconde simbolismi, indizi (fate attenzione ai dialoghi tra i tre protagonisti durante il viaggio in metro, la Bellucci che si toglie la mano del fidanzato dalla bocca, proprio come farà con lo stupratore, il desiderio scherzoso di Cassel di sodomizzare la fidanzata, che diventa orribile presagio, il libro che legge la Bellucci sulla potenza dei sogni premonitori e sul tempo che è già scritto), distruggendo ulteriormente lo spettatore.

E Noè, senza pietà, porta lo spettatore in un finale di straordinaria bellezza, dove prima una bizzarra citazione di “2001: Odissea Nello Spazio” di Kubrick (perchè è un film che inizia con la nascita dell’uomo, mentre “Irreversible” è l’esatto contrario) e poi un sogno ad occhi aperti, di massacro dell’innocenza e di apocalisse del sogno borghese, portano ad un incubo di allucinazioni ed epilessia. Il tempo ha distrutto tutto: ha distrutto i suoi protagonisti, lo spettatore e il film stesso.

“Irreversible” è un film straordinario, un autentico capolavoro da riscoprire e valutare con più coscienza. Sicuramente, uno dei più coraggiosi che possiate trovare.

Blood Is Beautiful: “Xiu Xiu Live”

8 Apr

(Jamie Stewart e il sottoscritto)

Milano, 3 Aprile 2012. Salumeria Della Musica

Pre-Concerto

Ore 16, o giù di lì.

Arrivo troppo presto. I cancelli si dovrebbero aprire alle nove, come recitato da un cartello affisso al muro di questo locale immerso nella periferia più triste, ma sono spalancati. Entro con le mie cinque ore e mezzo d’anticipo, ignaro di tutto.

C’è un uomo seduto sulla sedia che attende qualcosa. Sta fumando la sigaretta e lo scambio per il proprietario del posto. Gli chiedo “Posso restare?”

Altri non è che un giornalista. Sta aspettando il suo turno. Sì, perchè Jamie Stewart, il carismatico leader degli Xiu Xiu, è proprio lì, a due passi da me e parla delle sue impressioni su musica, politica, sesso, amore e letteratura. Ride fragorosamente, è a suo agio: molto diverso da come me lo immaginavo. Molto diverso da quell’icona alternativa/queer di durezza e provocazione. Così diverso da quell’emblema di depressione e dolore, di autolesionismo e rabbia.

Ma se c’è una cosa che funziona negli Xiu Xiu, è proprio questo: il continuo equilibrio tra la provocazione e la dolcezza, tra la rabbia senza limiti e l’infanzia. Chi è , infatti, Jamie Stewart se un bambino nel corpo di un quarantenne?

Un musicista con alle spalle più di quindici anni di album, che mai si è vantato della sua popolarità nel circuito indie. Mi avvicino a lui dopo averlo ascoltato e ammirato da lontano.

Facciamo due foto insieme, discutiamo del più e del meno e, poi, dimostra la sua generosità: prima mi invita alle prove, poi mi regala due dischi (“Blue Water White Death” e “Fabulous Muscles“), una maglietta e una borsa. Mi fa più volte cenno, mi saluta e torna a parlarmi.  Un uomo che si porta il suo merchandising da casa, con la sua valigia portata da Saint José, in California, dove tutt’ora vive.

Partono le prove. Si rimpiange l’assenza di Angela Seo, la grande compagna di merende che, dopo l’addio di Caralee McElroy, andatasene per “motivi personali” dopo l’uscita di “Women As Lovers“, ha accompagnato Jamie nel suo itinerario musicale distruttivo. Perchè Angela manchi? Non si sa. A rimpiazzarla c’è Bettina, una ragazza che non ha nulla della presenza scenica della componente ufficiale: è morta sulle tastiere e pare una statua di cera. Tuttavia la cosa funziona: Jamie è più in forma che mai, la musica raggiunge picchi altissimi e si sentono accenni di quello che avverrà: Joey’s Song” in primis.

Io: “Che canzoni farete stasera?” Jamie: “Che canzoni vorresti ascoltare?” Io: “Ian Curtis Wishlist Jamie: “Nooo! Quella non la facciamo più!” Io: “è la mia preferita!” Jamie: “Potevo immaginarlo!” Io: “Suha, allora” Jamie: “Oh, meno male, quella la si fa!”  

(Tutte le foto che compaiono nell’articolo sono state scattate dal sottoscritto, n.d.r.)

Il Concerto

Apre l’italiana Mushy, che si diapana in una scelta musicale che pare miscelare Zola Jesus e la witch-house. Brava, carismatica e potente, la sua breve performance dà il via allo spettacolo per cui tutti i presenti si trovavano sotto il palco: gli Xiu Xiu.

Sale con i suoi tre elementi, Jamie Stewart, allegro e spensierato come non mai.  Dopo un fugace rito di purificazione pagano, attacca la prima canzone: è “Fabulous Muscles“,  che rientra tra le sue ballate più intense in assoluto. Resa ancora più magica dal vivo, la canzone è una straordinaria love-pièce, dove l’amore puro si mischia alla morte, al sesso, al sangue. Un testo durissimo che s’accompagna con il dolorosissimo e lento passo di danza, colpendo dritto al cuore. Jamie Stewart chiude gli occhi e si lascia trasportare:

“Non è romanticismo, Non è sesso, é solo una notte stellata”  

Un’apertura commovente che si sradica nella rabbia repressa di “Smear The Queen“, nell’album, l’ultimo “Always“, più controllata e easy-listening, in duetto con Carla Bozulich. Da solo, Jamie si sfoga con rabbia, violenza e passione. Scarica riff elettrici e non lascia scampo, sfociando in una versione elettrica e furiosa di una splendida The Fox And The Rabbit“, uno dei vertici tra le ballad della formazione.

Il concerto rimane su livelli altissimi di musica straordinaria. Jamie si divide tra l’empatia di una “Sad Pony Guerrilla Girl” resa stupefacente e allungata (già su disco era una delle canzoni più belle del decennio scorso, dal vivo è un miracolo) e un’appassionata cover di Ceremony” dei Joy Division.

Jamie canta da solo anche “Honeysuckle“, nell’album in duetto con Angela, e i risultati restano efficaci e sorprendenti, velocizza “Joey’s Song” rendendola quasi punk e poi ferma il tempo con “Suha”, canzone-capolavoro, trascinata dai cori aperti e ubriachi del pubblico, ammaliato da cotanta bellezza.

Ma non finisce qui. Hi, il singolone bomba che tutti aspettavano, dal vivo è bollente.  This Too Shall Pass Away“, bellissimo pezzo sul superamento del dolore, diventa un grido di gioia che squarcia la sofferenza e l’empatia delirante che si stavano facendo troppo sentire.

E poi. Il botto. I Luv The Valley Oh“, il brano più famoso del gruppo, urlato su un riff irresistibile, unisce il pubblico e lo porta a cantare insieme al frontman. Un anthem assicurato, che diventa emozione putrida, viscerale. Musica vera.

Ma è con il bis, una cover dei Suicide (“Frankie Teardrop”) che arriva la bomba: Jamie impazzisce, salta, urla, danza (a modo suo), diventa un animale da palcoscenico  fino allo sfinimento. Uno show spettacolare concentrato in 5 minuti di sospiri e urla, che non ho potuto fare a meno di filmare:

Lo show è finito. Jamie Stewart ringrazia e, con il sorriso stampato sul viso, saluta con la mano. Lui è felice. Io sono ancora scosso.

E ho ancora “Fabulous Muscles”, da lui regalatomi, che gira ininterrottamente nello stereo.

Muscle (Hisayasu Sato)

1 Apr

Hisayasu Sato è un regista strano, molto strano: è un uomo dotato di una profondissima sensibilità, deviato da traumi infantili e sessuali su cui è meglio non divagare, è una personalità insolita all’interno del cinema giapponese. é un nome che più volte si tira fuori per definire quel sottogenere del cinema asiatico che prende il nome di “Cinema estremo”: in realtà, il cinema di Sato è tutto fuorché tette e sangue.

Hisayasu Sato è tutto fuorché un pervertito. Regista spesso sfortunato, poco considerato e diventato celebre solo con il caposaldo “Naked Blood” (1995), film splatter filosofico che riflette sull’impossibilità della cancellazione del dolore nell’essere umano, è in realtà un artista con alle spalle quasi un centinaio di film. Personaggio enigmatico, ambiguo, eppure capace di grandi cose. E, tra queste grandi cose, sicuramente c’è “Muscle“: il suo capolavoro, un film splendido e perfetto in ogni sua componente, che ancora una volta sfrutta il genere del “pinku-eiga” (il cinema softcore nipponico a basso budget) per avere la massima libertà d’espressione, sia visiva che narrativa.

Ma “Muscle” è, prima di tutto, una potentissima storia d’amore e cinema. Film breve ed intenso, lento, dolorosissimo e, a tratti, persino estenuante, che riflette, con una potenza inarrivabile sia sul rapporto di coppia, che sul rapporto con il cinema. Il cinema è visto come uno strumento di altissima capacità, di massima comunicazione e di interazione (“Se non ti piace quel che vedi, allora non pagare”), o come unione degli affetti interpersonali (il protagonista che vuole vedere “Salò O Le 120 Giornate Di Sodoma” per riallacciarsi ad una persona cara, che gli aveva parlato del film stesso), un senso metafilmico che si riallaccia perfettamente alla visione distorta e sconcertante dell’amore, secondo l’autore asiatico: in una società sull’orlo del collasso, soffocata dal desiderio del possesso e della perversione, solo i puri di cuore credono ancora nell’amore. E i puri di cuore sono destinati a soffrire.

Per questo anche l’azione, che è il letmotiv del film (ritrovare il proprio amante per restituirgli il braccio amputato), sotto la crosta del grottesco e del disturbante, nasconde una metafora splendida sull’amore: per amare bisogna raccogliere i pezzi che hanno portato alla rottura del rapporto e rimetterli insieme. Per amare bisogna dimenticare il corpo, accecandosi, e iniziare a sessualizzare l’anima.

I personaggi di Sato sono sempre persone vuote, che cercano disperatamente qualcosa che possa riempirle: sono automi senza volto, disperate cornici del nulla, vaganti spaventapasseri in mezzo a soffocanti vie metropolitane. I personaggi di Sato cercano nel sesso l’unica via possibile verso la catarsi, ma non la trovano quasi mai: la speranza risiede in un non-luogo, in un limbo dove finalmente potersi raccontare.

E qui entra in gioco il lunghissimo, straordinario finale, che pare anticipare di oltre dieci anni l'”Eyes Wide Shut” kubrickiano: un dolente e morbosissimo festino sessuale che si trasforma in farsa teatrale, dove tutti i nodi vengono al pettine, e dove solo un’azione estrema può ricongiungere due persone che si amano, ma che non vogliono rendersene conto.

è lo sguardo, criptico, disilluso e vertiginoso di Hisayasu Sato: un pugno in pieno viso che si concretizza in un cammino che sprofonda negli inferi, nelle viscere, subliminando ciò che è inconscio in tutti noi. è un viaggio che vive di morte, arte, sesso, amore, vita. E ciò che può essere considerato estremo, impossibile  o violento, non è altro che la nostra vita.

Per amare, si deve ballare, ad occhi chiusi, un tango sfrenato.

Always.

31 Mar

Salumeria Della Musica, 3 aprile 2012. SI avvicina il concerto degli Xiu Xiu.

Mi aspetto vestiti della comunione sporchi di sangue mestruale, schiaffi sotto il vischio, sogni nel cassetto che fanno esplodere gli armadi, abbracci sporchi di letame e sudore, massacri d’innocenze, collassi emotivi e paganesimo straziante. Mi aspetto di tutto, aspetto tutto. Grazie di esistere, Jamie Stewart.

Barren Illusion (Kiyoshi Kurosawa)

23 Mar

Barren Illusion” di Kiyoshi Kurosawa è il miracolo cinematografico. Una rivoluzione distruttiva che sradica tutto il cinema pseudo-adrenalinico e cervellotico. Ritmo ascettico, lentissimo, ma mai stancante, con un’implosione assoluta anche nell’ambito puramente narrativo. è un film che non racconta assolutamente nulla, eppure resta, colpendo al cuore come un coltello affilato.

Lavora per concetti, suggestioni (l’uomo che scompare e ricompare, scompare e ricompare), immagini pure e disperate (il suicidio ingiustificato della donna), è un’altra apocalittica visione sull’incomunicabilità di Kiyoshi Kurosawa. Rarissimo esempio di cinema che rifiuta completamente il suo pubblico, distruggendolo anche con invisibili calci. è un film che ha solo una scena madre (il ritrovamento dello scheletro sulla spiaggia), pertanto non necessaria alla comprensione e che, non avendo alcun’invenzione di finzione, finisce semplicemente dove deve finire, senza trovare un finale ad effetto, con personaggi che paiono fantasmi e che, come tali, possono dissolversi da un momento all’altro.

Mai chiassoso, mai banale, è una fiaba urbana metafisica, perchè scava in profondità del corpo stesso, ma anche al di là del corpo. Oltre la vita. Oltre la morte. Capolavoro.

Otto canzoni per salutare il 19/02/2012.

19 Feb

1. Uffie– First Love

Sanno di fiori di ciliegio appena sbocciati e di risvegli mattutini fracassati dai brillii lontani del sole, questi squarci e luccichii di pura nostalgia eighties. Uffie è  una viziata ragazzetta stonata dei nostri giorni distrutti dall’incomunicabilità, che riesce ancora a cantare del primo amore e a convincerci.

2. Peaches– Mud

Carnale, sbilenco e soffocante orgasmo sporco, spinto dalle ritmiche allucinanti terrose, fatte di sangue, ossa e sospiri. Bomba ad orologeria buttata contro le anime di vetro. E fa muovere il culo.

3. Totally Enormous Extinct Dinosaurs – Tapes Money 

Coloratissima e caleidoscopica visione della morte di un tramonto, dipinto sul viso di un ragazzo che quando gorgheggia pare annoiato dalle luci stroboscopiche che gli corrono tutte intorno. E furie di LSD . E sospiri di innocenza deviata. Biglietto per l’estasi e non ritorno. Circuiti dance. Vorticosi salti nel vuoto e più niente.

4. Active Child – High Priestess (CFCF Remix)

Musica da carillon abbandonato impolverato in soffitta e piccoli minimalismi elettronici di vulcani in erezioni. Una Maria Callas al maschile che gorgheggia. E tanta lava che scorre. Te la vedi davanti. In tutto quel grigio.

5. Youth Lagoon– Afternoon

Perchè quel fischiettio di tastiere e illusioni sonore, quella voce così puerile da disperdersi nel quasi-rumore/quasi-soffuso e quel gentile battito di batteria sono troppo belle per poter finire così presto. Causa dipendenza.

6. How To Dress Well – Ready For The World

Pare un vinile impolverato di musiche voodoo e mette ansia, però, poi ti accorgi che potrebbe anche essere una canzone d’amore e ti scioglie. Poi scopri che potresti anche ballarci sopra, molto lentamente e con tanto fumo di sigaretta tutt’intorno, e allora non ci capisci più un cazzo. Ma ti piace, eccome se ti piace.

7. Balam Acab – Apart

Ti perdi nel crepuscolo e non sai dove sei. Arriva una voce infantile e ti fa vedere la luce. No, è solo un’illusione. E torni a perderti, così va a finire che la riascolti per ritrovare il sentiero di casa e non ce la fai.

8. Uochi Toki– Gettandomi In Ambigue Immedesimazioni Richieste, Ma Non Richieste

Ovvero l’apice orgasmico della poesia sonora, della narrativa musicale e della magia che ci spinge a seguire il vorticoso e crepuscolare amplesso di violoncelli ed elettronica. è come se papà ti raccontasse la storia della buonanotte, una storia carinissima ma che finisce in tragedia. E finisce l’infanzia.

“Babel” di Alejandro Gonzales Inarritu

11 Feb

Un incantevole e crudele dramma che lega tre nazioni lontane nel mondo, un dramma che prende piede da un atto infantile di due ragazzini che vorrebbero diventare adulti. Ma il film parla proprio di questo: la ragazza giapponese che soffre del suo handicap e vede attorno sé la scoperta della sessualità dei suoi coetanei che vorrebbe provare, l’enfant terrible messicano che fa il duro, ma poi abbandona i suoi cari per scappare e i turisti americani che pensano prima a se stessi che a chi soffre davvero. è un film duro, ma anche vero, reale, sanguigno, che riesce a ridestare un minimo di speranza in un finale bellissimo e sofferto.

Ha degli attori straordinari (Rinko Kikuchi, Koji Yakusho, Gael Garcia Bernal, Adriana Barraza) e un pathos emotivo invidiabile, che trova il suo apice nella storia giapponese, sicuramente la più sofferta e bella: la bella e giovane Chieko viene ritratta nella sua disperata e triste scoperta della vita. Dura, fredda e disturbata, apre le gambe mostrando il suo segreto al mondo esterno, con estrema disinvoltura, ma con l’idea di raggiungere un vero rapporto umano. Quando si lascia sorprendere totalmente nuda dal padre, si raggiunge un apice di poesia estrema.

Un film che unisce e divide il mondo e i suoi esseri umani, tutti verso l’autodistruzione e la redenzione. Livido, a tratti isterico, altre volte silenziosissimo, con dei momenti registici straordinari (la scena nella discoteca di Tokyo, con l’audio forte della musica che, a scatti, sparisce, costringendoci alla sordità di Chieko).

Come un proiettile alla tempia, “Babel” resta dentro.